domenica 25 aprile 2010

Scernock pt. finale

Si svegliò titubante il mattino dopo, il quadro del sogno gli era impresso nel ventre della sua mente, ma non riusciva a comprenderne il significato. Avrebbe potuto ancora vagare qualche sera sempre in ricerca o scovare ancora degli indizi fuori di se, non lo fece, preferì rimanere con i suoi pensieri, voleva uscire da se stesso sentendo per intero il suo essere. Si concentrò a fondo, poi, avendo iniziato senza un motivo a sussurrare l'om, sentì la mente che si allontanava, lasciando il posto ad un' emozione mai provata prima, egli aveva sentito il suo essere per intero e l'aveva esteso oltre i confini del proprio io, sconfinando nel flusso del suo essere. Aveva toccato i limiti vivaci e accesi del suo intero io, unendo a questi i confini dell' universo.
In qell' abbraccio quasi materno egli rivide il bambino, nato dalla cenere, e lentamente ne scorse il volto. Quel bambino era lui, era lui per diamine, e rappresentava il suo risveglio. Il risveglio della parte di lui più profonda, che aveva scaraventato nelle viscere più oscure dell' inconscio e ora però ne aveva rivista una parte. Ora incominciava il suo cammino, il suo vero cammino.
Mai il suono del tamburo l' aveva emozionato tanto, era il suo cuore che s' apriva, che irraggiava l' infinitezza dell' esistenza. Era la vita in lui. Si sentiva vivo come non mai e le lacrime ricoprirono il suo viso. Esplose l' armonia dei sensi nell' emozione più bella mai provata. Vide in sè il cammino del mondo, vide in sè gli esuli del mondo in cui viveva, quelli che erano andati oltre, oltre le cose, oltre la terra, oltre la vita. L' amore si era impossessato di lui.

Voci di monaci nella sua mente, inondavano il suo inconscio, giungendo sino alle spiagge del suo io cosciente. Quelle voci gli mostravano il suo passato, riavvolgendo il tappeto del tempo sino all' infanzia, sino  ai giochi infantili. Gli balenava il ricordo assopito, il seme della verità era finalmente sbocciato in un' immagine vivida, come se l' avesse appena vissuto, con ancora tutto che gli formicolava sulla pelle. L'immagine era questa: Scernock bambino che giocava in strada con alcuni amici, improvvisamente una tempesta irruppe e i bambini si dileguarono. Lui però non era scappato, era rimasto lì, sotto la scrosciante pioggia. Aveva visto un signore, a gambe incrociate vicino alla strada, pure lui non si era mosso di un centrimetro nonostante l'acquazzone. Si avvicinò lentamente a quella misteriosa figura e senti come un sussurrò uscire dalle labbra bagnate. Si avvicinò ancora e senti un suono distinto, l'uomo stava dicendo "Om". Quell' uomo era un monaco, lì vicino c' era un monastero bhuddista, e appena incrociò lo sguardo con Scernock bambino sorrise. Era un sorriso diverso dai soliti che aveva visto, ne rimase come abbagliato per qualche istante, era ipnotico ed esprimeva una serenità più irradiante del cielo estivo.
Sì ricordò così che da piccolo, dopo essere stato abbagliato da quella misteriosa figura, aveva provato a imitare la posizione e i modi di quell'uomo. Infatti appena arrivato a casa si rintanò nella sua stanza, si mise a gambe incrociate e incominciò a pronunciare quella parola udita poco prima, l' om. Brividi, quasi subito, corsero lungo la shiena e la sua mente era stata zittita. D' un trattò però la sua mente si ribellò a quella sensazione, la paura iniziò a farsi largo nella sua mente, la paura di non sentire più il proprio io, che voleva sempre essere al centro di tutto. Quella paura aveva fatto sì che lui rinunciasse a nuovi tentativi di mettersi in quella posa. Almeno, ciò si prolungo fino ad ora. Ora però aveva compreso la grandezza di quel gesto, la bellezza dell' infinito e dell' amore, del mondo che era entrato nei suoi polmoni, del sangue che ribolle come le lavi più profonde. Si era finalmente ricongiunto col tutto.

venerdì 16 aprile 2010

Scernock pt. 1°

Tutto sembrava un tormento, tutto lo inseguiva continuamente, provava a fuggire, ma qualsiasi cosa facesse la situazione tornava sempre come prima: Era lui, solo, e non aveva più nessuno. Aveva gettato il suo animo su delle persone, che però lo avevano rigettato, scaraventato nuovamente in quell' esistenza piatta, fatta di monotonia e noia di vivere.
Scernock si rese conto di essere inseguito da qualcosa, la portava sotto pelle e non poteva disfarsene. Non importava dove si recasse o chi frequentasse, ormai faceva parte del suo DNA e si divertiva a tormentarlo. Tutto era notte, dentro e fuori di lui, non vedeva che la cenere della fine dei tempi, sparsa vicino al vuoto di un buco nero.
Non aveva figli, ragazze si ne aveva avute, però tutte videro in un lui qualcosa che le fece fuggire, scappare, come chi vede la morte in faccia. Credeva che nello sguardo si celasse il suo problema. Si guardava attonito allo specchio, fissando i suoi occhi sbiechi, sembrava che fossero quelli di un demone. Perchè, cosa aveva fatto, che cosa gli brulicava nell'animo da rendergli un simile sguardo. Queste domande lo tormentavano e così vagava, quasi ogni sera, di bettola in bettola, per trovare qualche indizio, qualche briciola che gli desse spiegazione di che cosa fosse, di che cosa gli fosse successo. Le serate però finivano sempre allo stesso modo: lui, rannichiato nell'angolo più estremo del divano, a guardare quella dannata parete della sua stanza, dove c'era un segno sul muro, una piccola vena rossa, che sembrava volesse offuscare qualcosa, cancellare qualcosa. Scernock si sentiva così, come se una sbarra rossa gli fosse sempre davanti. Ogni volta che gli pareva d'essere sulla soglia della verità, la sbarra calava di fronte a lui.
Le bettole che frequentava erano di solito dei bar di quartiere, frequentate per lo più da ubriaconi senza vita, che ridanciavano e si malmenavano sino a tardi. Era quel cavolo di impulso che lo portava in quei posti, l'odore di feccia era per lui irresisitibile, forse perchè lui si sentiva come loro, feccia, robaccia da buttare in un cassonetto.
Il suo bar preferito era il bar di Jacky, un omone grassoccio con le braccia penzolanti come salami appesi. Faceva ogni tanto qualche parola con lui, anche se si guardavano sempre in cagnesco; due cagnacci randagi, di cui ognuno crede che l'altro sia messo peggio, guardandolo con disprezzo.
Scernock lavorava come corriere in una ditta di trasporti da quattro soldi, non veniva pagato granchè, in più aveva l'affitto da pagare. Del denaro non gliene fregava molto, forse perché non c'era niente che lui ritenesse utile comprare, se non il necessario per vivacchiare. Vivacchiare, credo sia questo il termine giusto per descrivere la sua esistenza. Uno che lavora, si nutre e fa una salto al bar ogni tanto, si, direi proprio che vivacchia.
Sembrava una notte come molte altre, il carro nel cielo trainava sempre i buoi del suo misero destino nella medesima direzione, e lui, dopo aver passato la solita serata schifa da jacky, aveva deciso di prendere una strada diversa per tornare a casa. Non sapeva nemmeno lui spiegarsi perchè, ma quelle sera passò sul ponte di river brake. Sorpassato il ponte notò qualcosa di strano, che gli diede un lungo ed elettrico brivido per la schiena. Aveva visto un tombino aperto e per poco non ci era finito dentro. Molti penserebbero che fosse paura ciò che aveva provato, invece no, quel vuoto del tombino, quell'oscurità pentrante che esalava nella strada, gli aveva fatto ricordare che mancava qualcosa nella sua memoria, vi era come un buco, una zona d'obmra che gli era ignota, un ricordo che diceva: "accesso negato".
Sentì l'impulso di muoversi e alla svelta anche, corse allora di fretta verso casa con frenesia. Passo dopo passo la sua mente era sempre più confusa, si aggrovigliava in mille ragionamenti senza venirne a capo; provava ad estrapolare da altri ricordi la mancanza, la perdita di una parte di sè, una parte importante, che si era assopita in un sonno profondo. Il letargo sembrava però essersi concluso e iniziava ad aprire leggermente gli occhi la verità sul suo passato.
Arrivato a casa barrò l'uscio e andò nella sua stanza. Aveva le mani nei capelli e si lagnava. Si fermò d'un tratto e smise di lamentarsi. Fissò intensamente quella vena rossa sul muro, quella misera striscia rossa. D'un tratto si destò in lui qualcosa, pulsava e batteva contro le pareti del suo cervello, lui spalancò la sua mente e si lasciò andare. Cadde in uno stato di incoscienza e sognò, non aveva mai sognato così prima: c'era lui, con alghe per tutto il corpo, anzi, era fatto di alghe, e in alto una fenice solcava i cieli. Era buio e nuvole nere invadevano il cielo, d'un tratto la fenice spiccò il volo dentro le nubi e bruciò. Di lei non rimasero che ceneri. Da quelle vide nascere un bambino e lui a guardarlo.

sabato 10 aprile 2010

Vetro appannato

Il mondo striscia nell' universo
e lascia dietro sè la bava degli
astri, le sbavature lungo la
scia ne rendono impossibile
la vista di ciò che era.

Qui si guarda attraverso un vetro
appannato e l'unica cosa che si
può fare è disegnarci sopra.

sabato 3 aprile 2010

Avviso di Sfratto

Tu, che hai albergato la
mia mente troppo a lungo, non
hai pagato l' affitto, perciò
ti sfratto. Voglio fare spazio
ad un nuovo inquilino, che non
derubi gli immobili nella mia
mente e che non scriva sulle
pareti del mio cervello murales
indelebili, parole che parrebbero
vere, se non fossero un gesto
di protesta e di noia.
 

Addio vecchia inquilina, trovati
un altro posto da arredare e un
altro cuore da prosciugare.